Lunedì 8 maggio
Oggi ha testimoniato Rivka Yosselevska, una donna di mezza età che non poté venire a deporre venerdì scorso perché colpita da un attacco di cuore. Nel suo yiddish con l’accento russo ella ha raccontato alla Corte la sua terribile storia. È nata in un villaggio nei pressi di Pinsk, dove vivevano circa 500 famiglie di ebrei. Nel 1941 il villaggio fu occupato dai nazisti ed ebbero inizio le prime azioni contro gli ebrei. Poi fu istituito un ghetto e spesso gli uomini rischiavano la vita per andare a pregare all’alba in uno scantinato. Nel 1942 i pochi superstiti del ghetto furono riuniti nella piazza principale e fatti salire su un grosso camion. Quelli che non vi trovarono posto dovettero corrergli dietro. «Con la mia bambina in braccio», racconta la Yosselevska, «corsi dietro il camion con tutte le mie forze. Chi rimaneva indietro veniva ucciso sul posto. Quando arrivammo a destinazione vidi la gente del camion che ci aveva preceduto già spogliata sull’orlo di una grande fossa. Quattro SS armati fino ai denti cominciarono a uccidere gli ebrei a uno a uno. Mia figlia mi domandò: “Mamma, mi hai fatto mettere il vestito del Sabato perché dobbiamo morire?”. Le sofferenze dei bimbi erano insopportabili e speravo soltanto che tutto ciò finisse presto. Mio padre, mia madre e le mie sorelle furono fatti spogliare e uccisi davanti ai miei occhi. Poi venne il mio turno. Un SS mi strappò la bambina dalle braccia: udii un urlo e uno sparo. Poi fui colpita anch’io. Caddi tra i corpi nella fossa. Dapprima pensai di essere morta e che la pesantezza alla testa dovesse essere ciò che si prova dopo morti. Ma soffocavo per i corpi che continuavano a cadere su di me, tentai di muovermi e capii di essere ancora viva. Desideravo soltanto un’altra pallottola che ponesse fine alle mie sofferenze ma continuai a lottare per non soffocare, per non essere sepolta sotto i cadaveri. Alla fine riuscii ad arrivare all’orlo della fossa. I tedeschi se n’erano andati. Ero nuda, coperta di sangue e di escrementi altrui. Cercai tra i corpi quello della mia bimba, Merkele, ma era impossibile riconoscerla. Eravamo rimaste vive in quattro. Invidiavamo quelli che erano già morti. Dalla fossa sprizzava il sangue come una sorgente d’acqua e ancora oggi quando passo vicino a una fonte non posso fare a meno di ricordarlo. Rimasi tre giorni e tre notti stesa sui cadaveri. Poi passarono dei pastori che mi gettarono delle pietre: non sapevano se fossi morta o pazza. Alla fine un contadino mi aiutò a raggiungere gli ebrei nella foresta, e rimasi con loro fino alla liberazione.»
Tra i documenti presentati oggi ci sono alcuni rapporti tedeschi sulle azioni antiebraiche compiute all’est. Uno di questi, diretto come al solito alla IV-B-4 di Eichmann, è del novembre 1941 e si vanta del successo della propaganda nazista. «Grazie alla nostra organizzazione, gli ebrei credevano fino all’ultimo momento prima di essere giustiziati che venissero riuniti soltanto per essere trasferiti in un’altra località.»
C’è poi una serie di documenti concernenti il caso della signora Jenni Cozzi, un’ebrea di Riga sposata a un ufficiale italiano e che in virtù del matrimonio era divenuta cittadina italiana. Riuscita a mettersi in contatto col Console Generale d’Italia a Danzica, Giuriati, questi si interessò subito di lei e cercò di farla liberare, ma invano. Si iniziò allora una lunga discussione tra l’Ambasciata d’Italia a Berlino da un lato e l’ufficio di Eichmann dall’altro, tramite il Ministero degli Esteri germanico. Günther, il sostituto di Eichmann, si rifiutò di liberare la Cozzi «poiché ella potrebbe sfruttare le condizioni del ghetto di Riga per una propaganda di atrocità. Richiedo che l’Ambasciata italiana si astenga dall’appoggiare quell’ebrea». Le autorità italiane continuarono a fare pressione e perfino il Partito fascista intervenne presso quello nazista. Ma Eichmann ebbe l’ultima parola. Nella sua lettera del 25 settembre 1943 egli scrisse: «A seguito della nuova situazione politica creatasi in Italia (l’armistizio) non ritengo necessario prendere ulteriori provvedimenti in merito. Ho dato istruzioni perché l’ebrea Cozzi venga internata nel campo di Riga. Essa può ora seguire il destino di tutti gli ebrei».
È questo il prodromo del capitolo sull’Italia che metterà in luce l’abisso che separò in quell’epoca l’atteggiamento delle autorità italiane da quelle naziste.
Il Vice Procuratore Bach ha poi iniziato il dibattito sulle persecuzioni nell’Europa occidentale con una lunga serie di documenti che dimostrano la responsabilità di Eichmann nella spoliazione e nelle deportazioni da queste regioni. A questo proposito riportiamo qui un sunto del capitolo relativo della requisitoria iniziale del Pubblico Ministero.
LA BELVA IN GABBIA
Eichmann: i delitti, il processo, la condanna
di Sergio Minerbi
prefazione di Gabriel Bach
ex procuratore di Stato in Israele ed ex giudice della Corte Suprema israeliana
Edizioni Lindau | Collana «I Leoni» | pp. 280 |
euro 23,00 | ISBN 978-88-6708-015-1